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Termini e traversate

Tra i tanti talenti letterari di Fabrizio Gabrielli c'è la sua incauta fiducia negli scrittori che invita sulle pagine della rivista letteraria Prospektiva della quale è curatore con Gianluca Pitari e Andrea Giannasi. Dopo avermi convinto a scrivere per il numero 51 un racconto dal titolo improponibile sul tema della Follia, ha scoperto con me una condivisa passione per il McSweeneys di Dave Eggers ed è riuscito a coinvolgere Studio Kmzero nel nuovo progetto grafico della rivista. Così, ecco qui Prospektiva Cinquantadue, dedicato alla Traversata, "tema migrante & meticcio affrontato in prose, poesie e riflessioni, con allegata inedita missiva di preziosi resoconti di viaggio e gran copia di mezzi transoceanici & antipodi", il tutto imbustato timbrato e impacchettato in edizione limitatissima di 199 copie. La Traversata è in vendita, e costa euro sette. Chi è interessato può prenotare una delle centonovantanove copie cartacee numerate scrivendo una mail a redazione@prospektiva.it, oppure scaricarsi la versione digitale qui. Sulle pagine della Traversata c'è anche, di nuovo, un mio racconto, che si intitola Capra e Cavoli e che tratta, tra l'altro, di adulteri in comic sans, marketing di prodotti inesistenti, dilemmi logici con fiumi e animali e ostilità agli avverbi. Per quanto riguarda invece il racconto dal titolo improponibile apparso nel numero 51 - faccio prima a riportarlo qui che a raccontarvelo. Si accettano suggerimenti per il titolo.


Under der linden / an der heide, dâ unser zweier bette was, dâ mugt ir vinden / schône beide gebrochen bluomen unde gras. vor dem wald in einem tal, / tandaradei, schône sanc diu nahtegal. Walther von der Vogelweide


Arrivati in cima all’ennesimo dosso - per silenziosa e affannata intesa - si sono fermati. Si gode da quel punto una vista dolcissima sulla vallata: con mitteleuropea precisione v’è designata una panchina in pietra chiara, all’ombra d’un grande tiglio. Ci sono crollati a sedere, le bici lasciate cadere nell’erba accanto al sentiero. Bevono a sorsi lunghi dalle borracce, godendosi il silenzio, nonostante entrambi abbiano ancora nelle orecchie (un’ombra di suono che i cinesi chiamano yuyin) lo sferragliare dei pedali. E poi M., il più giovane, dice:
-Questo posto è così bello che mi vien voglia di cantare uno Yodel. E sai cosa: voglio comprarmi un vestito da tirolese. Un coso, un lederhose. Con bretelle, cappello e tutto... -Disgustoso. -Esattamente. Cioè no. Disgustoso, ma anche... -Bello? -Sì. Disgustoso ma bello. Che poi qui sembra lo facciano apposta. Hanno un talento per il trash. Ma li hai visti i mercatini di Natale? Meravigliosi. C’è un modo di dirlo? Quando qualcosa è così orribile che è strabello? -Boh. Ossimoro? -Prendi la Lederhose: non si guarda proprio. Però è meravigliosa. Ecco, ma mica voglio mica comprarmi un Lederhose da turisti, eh. Devo beccare un negozio buono. -No, non è mica giusto. -Però che non costi troppo. Casomai qualche paesino. Un Kurz Lederhose, al ginocchio. Come starei, eh? E giù Yodel. -Quel termine sarebbe un ossimoro. Ma...
Si interrompe, grattandosi il naso. C. si tocca sempre il naso, quando è concentrato. E M. sa che allora tanto vale smetterla di parlare, che l’altro è partito, andato, irraggiungibile. In una qualche sua personalissima speleologia del pensiero. Dalla quale emerge abitualmente con una frase smozzicata e incomprensibile, un chenyn assente tipo: -Alprofessore. -Eh? -Al Professore sarebbe piaciuta la tua domanda. -Quale domanda? Hai ancora crackers? Professore di cosa? -Il Professor F. Te l’ho detto, no? L’ho incontrato da studente, ci ho dato un paio di esami, poi gli ho fatto da assistente, per un annetto. -Tu, studente? Secoli fa, allora. -Coglione. Guarda che anche tu hai smesso di essere un teenager da almeno una dozzina d’anni, sai. -Morirò sempre dopo di te, arafor. -Non è mica detto. -Assistente di cosa? -Mah, più che altro cercava qualcuno che gli desse una mano a tenere ordinato il suo studio. Oddio, ordinato. Avresti dovuto vederlo. No, sul serio. Non ci sono parole.
E infatti c’è di nuovo una pausa, nella quale M. si sgranocchia un paio di crackers e C. si tocca il naso. E mentre lo fa è perso in un palazzo della memoria che ha la forma a quattro piani dell’Università di Lettere di Pavia, nel 1989. Per la precisione, è nel mezzo dello studio del Professore, che occupa l’intero sottotetto all'ultimo piano. Ovunque, librerie, scaffali e schedari: il Professore ha cominciato dalle pareti, poi ne ha messi altri nel mezzo, creando corridoi ulteriormente suddivisi con pile di volumi; ed alla fine ne è uscito una specie di labirinto nel quale è quasi impossibile avventurarsi senza rischiare di far cadere qualcosa. E tutti i volumi, ogni scaffale, ogni cassetto, sono segnati con etichette, fogli appuntati con spilli e nastro adesivo, piccole chiose. Ma non è quello ad essere straordinario: è l’intero soffitto che il Professore usa come mappa per le sue ricerche, una fitta rete di cartoncini fissati da chiodi uniti da fili colorati. Sembra la mappa di un sito web, pensa C.. E poi pensa che lo può pensare solo ora. Non avrebbe certo potuto dirlo allora: avrebbe pensato piuttosto ad una ragnatela, a un acchiappasogni.
-Ancora non mi hai detto che lavoro faceva. -In russo, uno spacciatore di gatti rubati si chiama koshatnik. In danese, l’assistente del guardiano del faro si chiama fyrassistent. E il kalanapuhi è il cortigiano che alle hawaii si occupa di scacciare le mosche che disturbano il sonno del sovrano, con un ventaglio di piume. -Mio nonno per un periodo ha fatto il capoclac. Coordinava gli applausi al Regio di Modena. Il mondo è pieno di lavori del cazzo, se è questo che vuoi dire. -No, voglio dire che il suo lavoro era proprio quello di cercare nomi. Cercava i nomi che definiscono le cose che non hanno un nome per definirle. All’inizio, forse era stata una specie di... boh, un divertissement da etnolinguista. Un modo di studiare la cultura attraverso il linguaggio. Considera che erano anni in cui la psicologia cognitiva andava a manetta. Lakoff in quegli anni aveva cominciato a parlare di nuovo di relativismo linguistico, e l’ipotesi di Sapir Whorf era tornata di moda. -L’ipotesi di Sapir Whorf suona fighissimo. Ci dovrebbero fare una puntata di Star Trek. -Ce l’hanno fatta, se non sbaglio. -Addirittura. -Sapir e Whorf dicevano che grammatica e sintassi del nostro linguaggio influenzano, o addirittura determinano il nostro pensiero. E agli scrittori di fantascienza ‘sta roba piace. Pensa alla neolingua di Orwell, in 1984, basata proprio sull’idea che se nella tua lingua non esiste un termine per pensare un concetto, allora non lo potrai mai pensare...
M. qui dovrebbe fare una delle sue battute, ma in realtà le parole di C. lo hanno spinto a ricordare di una certa notte di quasi dieci anni prima: una notte in cui M. si è svegliato con la certezza terribile e assoluta di stare per impazzire. Quella cosa scura e terrificante che l’aveva perseguitato per quasi un anno (puntuale, alle tre di ogni notte) alla fine era stata battezzata da un dottore: attacco di panico. Che qualcuno gli avesse dato un nome - tanto gli era bastato per non impazzire sul serio, per accettare e comprendere il fatto che lui non era, no, non era affatto pazzo - ma solo soffriva di attacchi di panico. E mentre pensa questa cosa tira un sospiro lunghissimo, perché si sente colmo di riconoscenza per essere lontano da quel momento passato, mentre C. sta - naturalmente - continuando a parlare.
-Tu sai che rumore fa la sabbia mossa dal vento? No. Perché non sai il malese. Altrimenti lo chiameresti desir. E un serpente che striscia nell’erba non lo sai riconoscere, perché non sai dire yuyurungul come gli yindiny australiani. -Yuyurungul? -E invece, quel chiacchericcio e ridacchiare smozzicato di un gruppo di ragazzine, in giapponese suona kusukusu. Il Professore diceva che se conosci queste parole impari anche a riconoscere i suoni che descrivono. E quindi si immaginava vocabolari per le aree buie, indefinite del pensiero, le zone del suo soffitto dove i cartoncini erano più radi, gli inesplorati del lessico, gli hic sunt leones della nostra mente... -Era completamente matto, insomma. -Beh. Era un genio, in un certo senso un artista. Cercava cose inutili e inpensate. Ed è morto pazzo. Quindi sì, credo che tu abbia ragione. -E’ morto pazzo? Che vuol dire che è morto pazzo? -E’ una storia brutta. Molto brutta. Lui... beh, lui... Morì per una specie di malattia degenerativa. Cominciò col... parlare di meno. Considera che era un parlatore straordinario ed affascinante. Ma a volte, ecco: si fermava. Come una macchina inceppata. E gli succedeva sempre più spesso. Stava ore seduto in poltrona, senza fare niente. Si pensava a una depressione. La moglie venne in facoltà, fece una scenata a una delle ragazze che insieme a me gli faceva da assistente. Pensava che lui fosse innamorato di lei, che fosse andato fuori di testa, qualcosa del genere. E alla fine se lo portò a casa, dove il professore passava le giornate seduto, in silenzio, sulla seggiola a rotelle. E dopo pochi mesi... -Brutta. -Brutta. -Suonata, anche lei, eh. Pazzo d’amore? Moglie ossessiva. Ci credo che uno poi passa le giornate a cercare parole in yindiny australiano. -Beh, aspetta. La gelosia di lei... non era così insensata. Lui era affascinante, te l’ho detto. Alle sue lezioni, la gente rimaneva incantata. Perché secondo te eravamo in quattro a fargli da assistente? E poi: nel suo ultimo periodo... aveva cominciato a scrivere un vocabolario per parlare di amori impossibili. -Eh?
-C’è una parola, nella lingua degli Yamana della Terra del Fuoco, che vuol dire: “guardarsi reciprocamente negli occhi sperando che l'altra persona faccia qualcosa che entrambi desiderano ardentemente, ma che nessuno dei due vuole fare per primo”. Si dice mamihlapinatapai. -Bello. Mi è successo, anche. Però non sapevo che si dicesse così. -Il che sarebbe un duro colpo per Sapir e Whorf, credo. -E serve per gli amori impossibili? -Beh, di tutti i fenomeni descrivibili con parole, l’amore è sicuramente il più complicato e interessante. E meno razionale. E più difficile da capire. E il professore voleva creare le parole per descriverlo, per capirlo, per poterlo pensare. Soprattutto, per quello non ricambiato. Per esempio: aveva un termine per quando menti a te stesso trovando giustificazioni alle crudeltà di un amante disinteressato: Hadah. E per quando provi nostalgia per il modo in cui una persona non si è mai veramente comportata con te: Lefsa. E aveva intere entomologie di farfalle nello stomaco, declinazioni d’ogni grado dell’odi et amo, e un’infinita serie di termini che dicono e vogliono dire no, e viceversa...
Quando C. parla così, con passione, agitando le mani e aggrottando un po’ le sopracciglia, sembra brillare d’una specie di luce interiore. A M. non serve l’etimologia a capire che entusiasmo vuol dire “con Dio dentro”. Lo guarda parlare di quel passato del quale lui non fa parte, eppure riconosce nelle argomentazioni il fascino del loro antico autore. Si chiede se c’è una parola anche per questo, e quante siano le cose che non è in grado di vedere perché non possiede i vocabolari del Professore. Immagina un mondo di parole perfette, in cui basti un solo termine per esprimere ogni frase, racchiudere ogni libro, definire ogni vita. Questo vertiginoso e infinito vocabolario perfetto gli sembra d’un tratto il folle antidoto ad ogni inesattezza del mondo - e comprende perché il professore abbia voluto evocarlo.
-Era un lavoro incredibile. Davvero. Con gli altri assistenti, passavamo delle ore ad ascoltarlo. -E naturalmente tu eri il suo allievo prediletto. -Ero l’unico a cui era permesso di fissare con gli spilli le nuove aree nella carta sul soffitto. -Ed eri un po’ innamorato di lui. -Un po’, forse. All’inizio. Come si poteva non esserlo... -E lui era un po’ innamorato di te. -Mh... -Davvero sua moglie non si era accorta di niente? -Figurati. Le mogli non si accorgono mai. -E scommetto che hai fatto anche finta di non avere capito che lui... Conoscendoti. -Era una cosa platonica. Ma mica potevo... -No, non potevi.
C. si è portato tutte e due le mani alla testa, come a combattere una fitta alle tempie. Rimane immobile per un po’, così. A soppesare una colpa che non ha termini per essere definita. Poi si alza (i suoi piedi, spezzando i ramoscelli, fanno un suono che i malesi chiamano kertek), solleva la bicicletta dall’erba. E dice: -Andiamo? Ci resta ancora un sacco di strada da fare. -Sì. E io ho bisogno di un paio di pantaloni tirolesi. Secondo me ti piaceranno. Lo dice salendo sulla bicicletta, con seducente nonchalance. -Sei la solita rizzacazzi. -Senti chi parla - dice M., col suo sorriso più bello e crudele.

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