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Quando, maestro?

 

Ricordo che la prima volta che ho visto i tuoi disegni ero alla Libreria Marzocco di Firenze.
Avevo undici anni e passavo i pomeriggi nella sezione dei fumetti.
Il tuo volume, cartonato, 140 pagine, Milano Libri edizioni, si chiamava Il Maggiore Fatale
(Che aggettivazioni superbe che sapevi tirar fuori - si vede che fumavi roba parecchio buona.)
Il libro me lo feci regalare dalla mamma, e ricordo distintamente che dovetti farglielo vedere un po' di sfuggita.
Perché a pagina 47 avevi disegnato una donnina nuda. 
Si stiracchiava dopo un'amplesso durato lunghe ore e diceva:

(Più facile allora per me, capire le tue astronavi, le torri diroccate, le tecnologie preistoriche, le vegetazoni rigogliose. Ma la sensualità di quei tratti morbidi e sottilissimi... Sulle donne nude a quell'età la mia posizione era un po' confusa. Ero certo solo d'una cosa: che la mamma non doveva sapere.)

Quattro o cinque anni dopo eravamo in tre a passare le giornate sulle tue tavole.
Le avevamo fotocopiate e le coloravamo a pennarello, sul tavolo di cucina dei gemelli.
Perché del Maggiore Fatale non era uscita una versione a colori, e allora avevamo deciso di farcela da soli.
A quindici anni fai cose del genere: decidi che se una cosa non c'è, te la fai da solo.

Credo fu allora, ecco, che decidemmo.
Decidemmo che ci avresti adottato.
Avremmo disegnato cose bellissime e ci saremo tutti firmati con un nome che lo dimostrava, che eravamo figli tuoi.
Si chiama patronimico, sai - tipo il Pelide Achille, Bin Laden, Björk Guðmundsdóttir o Zlatan Ibrahimovi?.
Che poi tu, nato Jean Giraud, t'eri scelto un nome bellissimo.
Moooeeebiuusss.
Solo a pronunciarlo, un giro d'ottovolante su quel nastro delizia dei topologi.
Uno ci provava subito, a storcersi il nome in "bius".

I gemelli mi chiamavano - con una certa perfidia - Jean Panchaud.
Quando dopo quasi dieci anni incontrai un ragazzo che si firmava Pagliebius, riconobbi un fratello.
Ne conobbi altri. 
Capii che eravamo in molti.
Tutti cresciuti sulle tue tavole, ripetendo i suoi gesti, come una maledizione del sangue.

(Tutto, nei tuoi disegni, sembrava spaventosamente facile - tutto necessario e sufficente. A ricopiarli, tratteggio per tratteggio, ti veniva un infinito magone. Perché ti eravamo figli comunque illegittimi, feroci e insoddisfatti) .

 

Ancora tempo.

Si cresce.
Dopo un ciuffo d'anni eravamo, portfolio sottobraccio, a percorrere le vie della cittadina d'Angouléme, sede del più grande e importante Festival di Fumetti del mondo.
Era un posto che giustificava e benediceva quell'adozione forzata che c'eravamo inventati anni prima. 
Era il posto dove il disegno aveva un senso, il senso. 
Dico: c'era persino un Museo dedicato al fumetto. Con una mostra, gigantesca, proprio su di te.
E tua era anche la statua davanti alla chiesa, nella piazza centrale. 

Feci la fila insieme ad altri credenti, al tuo stand, e ti chiesi un disegno.
Ti chiesi un canguro, perché al tempo collezionavo disegni di canguri.
Sì. Canguri. Lasciamo perdere. Ma comunque.
Ricordo che cominciasti a disegnare la testa, poi le braccia: un buffo uomotopo con qualcosa in mano.
E poi, la riga nera della schiena.
Lasciavi scivolare la mano. morbida.
Come quando s'accarezza una pelle nuova.
Un lungo segno. Lunghissimo.
Noi si tratteneva il respiro. 
Troppo lungo. 

D'un tratto quel segno rendeva incongruo tutto il disegno.
Inclinasti la testa.
Con un funambulismo di zampe dinosaure terminasti alla grande quel canguro nato sghembo.
E con tre segni di penna lo calasti in un deserto dei suoi - colmi di controluci calde dal basso.
E, sulla copertina del libro che il canguro aveva tra le mani:
"Quand? Guru".
Ne ridacchiasti soddisfatto.

Io presi il disegno come prendono le ostie i credenti veri. 


Dopo quella volta, ci siamo visti altre volte. Sempre ad Angouleme, con un amico fumettista, osammo persino offrirti un caffé. Accettasti, e per un po' sedemmo insieme, tu a darci consigli, come un uomo tra gli uomini.
A Poggibonsi ti vidi parlare insieme a Jodorowsky, che ti prendeva in giro e diceva "Moebius è una persona modesta, perché con estrema e sincera modestia riconosce d'essere un genio." 

E due anni fa, infine, ti vidi per l'ultima volta - sebbene in video - nella saletta dei documentari alla Fondazione Cartier di Parigi. 
Avevo, prima, compiuto due volte la via crucis della mostra dei tuoi impossibili disegni. 

Quando?

Una settimana fa.
Un sito tutto blu sul quale passo troppo tempo mi informa che hai lasciato questo nostro mondo.
Guardo lo schermo, e non posso far altro che pensare a quanto certe persone - con le quali a volte non abbiamo scambiato che una manciata di parole - lascino dei segni dentro di noi. 
Segni neri, morbidi, lunghi, lunghissimi.
So che siamo in tanti, a chinare il capo.
E salutare un padre inconsapevole. 
 

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